A mia nonna,
Anna Borghi
e alla fine s’impara anche a scriverlo correttamente:
alzheimer
s’impara che non è il medico tedesco delle barzellette.
s’impara ad incassare quel pugno nello stomaco ad ogni battuta
inconsapevole riferita ad una persona un po’ sbadata: “se vai avanti
così ti viene l’alzheimer”
s’impara la rabbia, la disperazione, l’impotenza.
non si impara ad accettarlo, forse s’impara a conviverci.
s’impara, inermi, a vedere andare in frantumi la Sua dignità.
s’impara a sentirsi chiamare mamma da chi nonna si faceva chiamare.
s’impara a sentirsi dire: “scusi, ma lei chi è?”.
s’impara a sentirsi domandare, da chi cucinava per te, come si
mettono i bicchieri sulla tavola.
s’impara ad indossare camicie stese per i polsini.
s’impara a spiarla di nascosto mentre va a buttare il pattume perché
poi smarrisce la strada del ritorno.
s’impara, si deve imparare, a non arrabbiarsi quando dimentica le
cose, fa pasticci e confonde gli oggetti.
s’impara a non contraddire.
s’impara a rispondere all’aggressività con una carezza.
s’impara a sorridere anche quando piangi dentro.
s'impara a sciacquare dentiere.
s'impara a lavare il Suo corpo. s’impara la naturalezza di ogni
gesto.
s’impara a mettere bigodini perché a Lei piaceva così.
s’impara a mettere pannolini.
s’impara ad armeggiare con ossido di zinco e rossori.
s’impara ad imboccare. s'impara il ritmo perfetto tra un cucchiaino
di cibo e l’altro.
s’impara ad accettare che quel cibo ti toccherà frullarlo come un
omogeneizzato.
s'impara a calibrare la giusta boccata d'acqua affinché non vada di
traverso.
s’impara ad accettare che quell’acqua ti toccherà raddensarla come
gelatina.
s'impara, si deve imparare, a non arrabbiarsi quando non mangia.
mangerà domani. quel domani che non ci sarà quando la capacità di
deglutire sarà compromessa.
s’impara… si cerca di imparare a capire se ha freddo, caldo, fame o
sete.
s’impara a parlare di tutto e di niente.
s’impara a non avere risposte.
s’impara a rassicurarla anche quando di rassicurante c’è ben poco.
s’impara ad accettare il silenzio della sua bocca e del suo sguardo.
s’impara a parlarle, nonostante tutto.
s’impara a dare abbracci e baci che non possono essere ricambiati.
s’impara a dirle ti voglio bene. sempre e comunque.
s’impara a non scappare col terremoto perché Lei non la puoi
muovere.
s'impara a fare punture. s'impara a farne tante.
s’impara il significato di “vivere alla giornata”.
s’impara a trafficare con manometri e bombole d’ossigeno.
s’impara a trattenere il respiro per l’esito del saturimetro e a
gioire per un risicato 90%.
s’impara ad avere paura. paura di un colpo di tosse. paura che
soffochi.
s’impara a dire che sarebbe giusto che chiudesse gli occhi. ormai.
s’impara a sentirsi in colpa per averlo pensato.
s’impara a fare i conti con il vuoto.
e si impara a dire “grazie” ad un medico speciale, dott. Gaetano
Feltri, per esserci rimasto accanto con infinita umanità fino
all’ultimo “gradino sceso”.
non si impara a non averti più.
ad un mese, oggi, dalla tua assenza.
agli 800mila malati di alzheimer, ai loro famigliari, a mia Nonna.
Erika Corghi
Modena, 24/07/2012
La mia esperienza di caregiver
di Eika Corghi
Cara Nonna,
Ti ricordi quando mi dicevi:
“Devi studiare, così da grande diventerai una brava dottoressa e mi potrai curare”
Te lo ricordi? Chissà, forse te lo sentivi che un giorno ne avresti avuto veramente bisogno.
Ho studiato, non sono diventata una dottoressa come intendevi tu, ma mi sono presa cura di te.
Vorrei poter dire che sono ancora una caregiver.
Vorrei potermi ancora occupare di te.
Vorrei averti ancora qui.
Quando ti sei ammalata ho perso i colori. C’era solo fumo. Fumo sui tuoi ricordi, fumo sulla mia serenità.
Avevo circa vent’anni quando iniziarono a chiederti in che anno siamo, in che stagione, in che mese… e mi ricordo i tuoi occhi quando mi cercavano per avere un suggerimento. I tuoi punteggi a quei test erano sempre più bassi e sempre più alto era il mio sconcerto, il mio dolore, il “perché proprio a te”, il senso d’inadeguatezza, la frustrazione.
E’ difficile, Nonna, raccontarti lo spaesamento che si prova all’inizio, il senso di solitudine e la paura di non farcela.
La rabbia si mescola all’impotenza e assomiglia ad una pietra che non si può scagliare contro nessuno.
Non è facile assistere, impotente, al cancellarsi di una persona che ami.
Non è facile fare il caregiver: nessuno te lo insegna, nessuno sceglie di esserlo… semplicemente lo si
diventa.
Possiamo forse scegliere chi essere?
30 ani fa ero tua nipote. Poi sono diventata tua figlia, tua madre, tua sorella… tua…comunque “tua”.
E sono rimasta “tua” anche quando continuavi a chiedermi “Ma tu, chi sei?”.
Bisogna rinunciare a trovare una logica a tutto questo. Bisogna azzerare le aspettative.
Bisogna coltivare l’amore. E tu sei stata un amore puro, sincero, viscerale.
Era con te, Nonna, la mia infanzia più bella.
Ti ricordi quando mi raccontavi le favole per farmi addormentare? Alla fine nel bosco di Cappuccetto Rosso ti sei persa tu, giorno dopo giorno, divorata da un lupo cattivo che di nome fa “Alzheimer”.
La malattia è una morte piena di viltà.
Le medicine scombussolano ciò che non curano.
Chissà, Nonna, cosa vedevi in quella nebbia fitta, in mezzo a quella confusione… nella tua testa si mescolava tutto, la gente e i sentimenti, la verdura e la frutta, il sale e lo zucchero, il giorno e la notte, il sorriso e il pianto, il sonno e la dimenticanza.
Con la memoria è la tua vita che si è persa… e un po’ anche la mia. Tutto si sbriciola.
Briciole… come i ricordi che rimangono, i gesti che si salvano… Briciole, come quelle disegnate sulla tovaglia che cercavi di raccogliere con un cucchiaino.
Briciole, come ciò che restava dei fogli che strappavi.
Coriandoli senza colori.
Frammenti sbiaditi di memoria.
Polvere di ricordi.
Polvere… come quella che cercavi di togliere strofinando il tovagliolo sulla tavola, rifacendo lo stesso gesto decine di volte.
Quando completavo una frase, con le parole che non ti venivano in mente, mi sembrava di dare l’imbeccata ad un uccellino.
Un uccellino indifeso, smarrito. Prendersi cura di te significava prenderti tra le mie braccia. Proteggerti.
La malattia rimescola le carte. Confonde i ruoli.
Chi sono io per te? Ti voglio bene. Ti stringo a me. Ti accarezzo. Ti tengo la mano. Mi prendo cura di te. Sei tu la mia bambina.
Una fragile creatura che non sa parlare, non sa mangiare, non sa camminare. Che non può più chiedere niente.
Difficile trovare un equilibrio. Impossibile accettare.
Lavarti la schiena con una spugna morbida. Lavarti i capelli con uno shampoo che non brucia gli occhi.
Spalmarti la crema sulla pelle inaridita delle gambe, lavarti le mani, tagliare e limare le unghie ingiallite, ungere con il Reparil i lividi sulle tue braccia delicate.
Cospargerti di borotalco al mughetto, farti indossare una maglia colorata, pettinarti, imparare a mettere i bigodini e i becchi d’oca, la crema sul viso.
Il nostro precario equilibrio, Nonna, è fatto anche di colori, di capelli sistemati con una spruzzata di lacca e una carezza.
Desiderare di vederti in ordine significava non averti perso del tutto. Significava restituirti la dignità.
Significava riconoscerti, ritrovarti. Significava cercare di trovare un senso.
Significava cercare di rimanere a galla, per non precipitare…
Perché l’Alzheimer è come un gorgo, trascina tutti giù… in un vortice assoluto.
E’ come un uragano che spazza via tutto. Quello che resta sono solo frammenti, tasselli di un puzzle scomposto.
E’ come un vaso ridotto in cocci… Essere caregiver significa provare a rimettere insieme quei cocci… per ricomporre un’identità, per tirare avanti.
Significa provare, tentare…
Significa osservarti, cercare di indovinare se dormi, se hai fame, se hai freddo, se hai caldo, se sei tranquilla, se hai paura.
Chiedertelo, senza avere risposte.
Essere caregiver significa imparare ad ascoltare i tuoi silenzi. Capire i tuoi disagi.
Significa ridimensionare le parole e parlare con gli occhi, con le mani, coi sospiri, con il cuore.
Non è stato facile scegliere per te.
Scusami, Nonna, per tutte le volte che ho sbagliato, per tutte le volte che non ho capito, per tutte le volte che mi sono arrabbiata, per quelle volte che ho pensato che facessi quasi apposta…
Scusami, Nonna, per tutte le volte che ti ho messo alla prova, che ti ho fatto domande, che ti ho chiesto chi ero, come mi chiamavo… per tutte le volte che ho cercato di farti chiudere il tappo della bottiglia d’acqua, per tutte le volte che ho cercato di farti cantare almeno una strofa di “Quel mazzolin di fiori” per tutte le volte che ho cercato di farti leggere i titoli dei giornali, che ho cercato di farti scrivere il tuo nome con la biro… scusami per tutte le volte che ho chiamato il tuo nome, senza aver bisogno, ma solo sperando di sentirti rispondere… per tutte le volte che ti ho chiesto un bacio…
Era la necessità di ritrovare piccoli gesti compiuti tante volte, insignificanti, ma ora così rassicuranti.
Era la necessità di ritrovare in quei gesti la persona che non vedevo più.
Essere caregiver significa dare 100 per avere 1, 10 o niente.
Essere caregiver, a volte, è come versare acqua in un vaso senza fondo.
E’ come voler costruire nel vuoto, come voler mettere mattoni, uno sull’altro, nel vuoto.
Essere caregiver significa sentirsi in colpa se a volte si vorrebbe fuggire.
Significa veder sparire buona parte dei parenti con la scusa che soffrono troppo a vederti ridotta così.
Significa spesso affidarsi a qualche badante e fare i conti, a volte, con il loro distacco.
Significa sentirsi dire “Ma perché non la mettete in struttura? Lì stanno così bene”
Significa sentirsi dire “Io, al posto tu, non ce la farei mai”.
Al posto mio, Nonna, non ci avrei messo nessun altro. Perché metterti al centro della mia vita per 10 anni non è stato un dovere, per dovere si dura poco. L’assistenza che riesce a superare il logorio del tempo è quella che si fa solo per amore.
Quell’amore che fa rinunciare al sonno per vegliarti quando il catarro ti fa respirare appena.
Quell’amore che non fa sentire i dolori perché i tuoi erano più importanti.
Quell’amore per cui la mia vita si è fermata un po’ per allungare la tua.
Tutto diventa secondario quando si è un caregiver.
C’eri tu – Nonna - prima di tutto, prima di tutti.
E’ stato come abbandonare le braccia sui fianchi e arrendersi.
Essere caregiver significa spesso sentirsi soli, fuori posto, incompresi.
Perché non ci sono parole capaci di fare capire agli altri. Gli altri non possono capire.
Siamo state fortunate, Nonna, ad avere un medico di base che ha fatto squadra con noi, che con noi ha condiviso scelte, criticità e che ti ha trattato con rispetto, quel rispetto che tu non potevi più chiedere ma del quale avevi diritto come chiunque altro. Essere caregiver significa scoprire amaramente che quella che dovrebbe essere la normalità quasi mai lo è.
Essere caregiver significa scoprire che non tutti i medici si chiamano Feltri.
Significa rendersene conto all’ospedale: quando ti hanno lasciato a digiuno un giorno intero e poi si sono dimenticati di inserirti nella lista degli interventi. Quando non ti hanno assegnato la fisioterapia perché tanto non eri collaborante. Quando gridavi spaventata ogni volta che vedevi un camice bianco. Quando, per metterti a tacere, ti hanno imbottito di tranquillanti, così non avresti più disturbato nessuno.
Significa rendersene conto nell’attesa al pronto soccorso: come spiegarti, Nonna, che la tua malattia non vale più di un codice bianco? Avevi una polmonite e ti hanno parcheggiato sotto il getto dell’aria condizionata. Tanto tu non potevi lamentarti, non riuscivi a chiedere nulla, non avresti protestato.
Scusami se non ti ho difeso abbastanza contro l’insensibilità e la superficialità di certi ospedali e di certi medici, quei medici talvolta arroganti e presuntuosi che si limitano ad applicare “protocolli”, quei medici che a volte non hanno pietà, che non dialogano, che non rispettano ogni vita umana allo stesso modo. Quei medici che non hanno la pazienza di attendere, che non ti danno attenzione perché tanto “non ne vale la pena”, perché tanto non sei “collaborante”, perché tanto “non capisci”, perché sei una paziente di serie B.
Essere caregiver significa essere la seconda vittima di questa malattia.
Essere caregiver significa essere eroi invisibili.
Essere caregiver significa imparare a fare in modo diverso la nipote.
Ho imparato ad accudirti, Nonna, come i grandi fanno con i più piccini.
Tenendoti per mano ho imparato ad imboccarti come si imboccano i bambini.
Tenendoti per mano ho imparato a lavarti, profumarti e vestirti come se fossi la mia bambina.
Tenendoti per mano ho accompagnato i tuoi giorni.
Tenendomi per mano te ne sei andata.
La malattia ha reso terribili gli ultimi 10 anni, ma non ha potuto cancellare l’amore di una vita.
Anche se indebolita e smemorata era bello trovarti in sala, quando aprivo la porta di casa.
Eri lì, sulla poltrona e i tuoi occhioni azzurri si illuminavano ed era il più bello dei saluti.
E adesso, Nonna, a chi faccio il bagno il sabato pomeriggio, a chi faccio la messa in piega, a chi sciacquo la dentiera, a chi taglio le unghie, a chi cambio il pannolone, a chi metto l’ossido di zinco, a chi preparo le medicine, chi imbocco, chi sollevo di peso, chi spingo in carrozzina, a chi faccio le punture, a chi misuro la febbre, a chi regolo la bombola d’ossigeno, a chi provo la pressione, a chi do colpetti sulla schiena per far passare la tosse, a chi riempio la faccia di baci…
A chi chiedo “mi vuoi bene?”… Chi mi risponderà “Certo!”?
C’è una specie di ombra, come fosse un buco, una mancanza: lì c’è la tua assenza. Lì c’è la solitudine che porto con me da più di un anno, ormai. Nessun amore è riuscito a riempirla.
Se fossi Eugenio Montale ti direi:
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino”.
Erika Corghi
Solo una metà
Solo una metà. Entrando in questa casa, ricorda: incontrerai solo una mia metà. Forse quella più silenziosa, quella disorientata, quella più indifesa e fragile, quella con lo sguardo rivolto al passato. Forse quella che si intestardisce, che ti tiene sveglio tutta la notte, che ti fissa, senza dire nulla, quella che si affida. Quella che ti mette in imbarazzo, che te lo dice cantando, che piange senza motivo, quella che vive di ricordi e che si sente viva nel raccontarteli. Quella riconoscente per quello che ha ricevuto, quella che sogna e viaggia con la fantasia, quella più illogica e divertente, quella che “Quando si perde la mente, il tempo, non lo sapremo mai!” Ma è solo una mia metà. Sono stato bambino, ho pianto ed ho conosciuto l’amore di mia madre. Sono stato ragazzo, mi sono innamorato e ricordo ancora gli occhi di lei alla finestra. Sono stato adulto, marito e padre. Ho conosciuto la responsabilità e la fatica, la soddisfazione per il mio lavoro e la paura, gli ostacoli e l’amicizia. Ho costruito, distrutto, lottato, perdonato. Entrando in questa casa, ricorda quella metà di me che ora fatichi a vedere: cercala nei miei sguardi, prendimi le mani e aiutami a non dimenticarla. E.B. |